Il prossimo appello

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Domani mattina alle nove vado a dare il mio ultimo esame. Che poi non è detto che vada bene, quindi potrebbe darsi che queste riflessioni siano inutili e ripetibili al prossimo appello.

Oggi ho studiato sei ore di fila, robe mai viste. Pausa pranzo in mezzo. Non so niente di più di quello che sapevo stanotte o stamattina quando mi sono alzata, è stato uno studio totalmente inutile, di facciata, per dire “non sono stata con le mani in mano”.

In biblioteca ho incontrato una mia amica, lei all’università è una bomba, perché sa davvero tutto e sa sempre come dirlo. Lei al diritto davvero ha consacrato la sua vita, e nonostante questo ha una vita sociale. Condividiamo le stesse preoccupazioni per il futuro – tirocinio non pagato, nessuna borsa di studio, poche possibilità di trovare in poco tempo indipendenza economica, e tutto questo dopo una magistrale in giurisprudenza. Presa in quattro anni.

Fondamentalmente per domani ho più dispiacere che ansia, posso dirlo? Mi dispiace che sia finita perché non so cosa c’è dopo, penso che più o meno si sentano tutti così alla “quasi fine” di qualcosa. Impauriti perché dopo non c’è più un posto dove andare tutti i giorni, un posto pure abbastanza demmerda al quale indirizzare tutti gli insulti possibili ed immaginabili, che abbia dei muri così grigi e spessi su cui sbattere la testa e i pugni in preda alla disperazione perché l’ultimo capitolo non lo sai, l’articolo a memoria non lo sai, sicuro ti bocciano.

Mi dispiace perché in questi quattro anni io non ho fatto solo questo. Io non ho studiato e basta, mi sono divertita, ho lavorato un sacco, quasi da far pensare che avessi il dono di stare in due posti nello stesso momento, e il solo pensiero che con un lavoro vero tutto questo finirà, mi distrugge.

Mi distrugge pensare che devo dare la vita alla professione e lasciar stare tutto il resto. Ma che vita da schifo sarebbe? Io ho bisogno di tornare a casa la sera e vedere una serie tv, di suonare, di ascoltare musica. Di cucinare cose buone. Non voglio smettere.

Io sono tutto questo. Io sono più cose. E questo è un concetto che non ha niente a che vedere col mondo del lavoro. È una cosa che chi ci sta già dentro non capisce, quando gliela dici. Non voglio rinunciare a come sono.

Comunque andrà.

Ho più cose da dire rispetto a quante ne ho dette, ma non mi riesce. Torno al prossimo appello.

Domenica

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Qualche giorno fa con un ragazzo che ho conosciuto parlavamo di come scrive la nostra generazione, del fatto che anche noi abbiamo un modo di scrivere solo nostro, che ci piace così, che in qualche modo ne siamo orgogliosi.

Dice chiamiamo i cani a suonare. Io invece li conosco poco. In ogni caso è difficile, non è più gente che puoi chiamare a suonare come chiameresti me o te. E che gente è? Non te lo saprei dire. È gente che sta un passo avanti a chi scrive e suona e basta, diciamo. Ma non è una colpa, né un pregio, forse.

Dice però calcutta è fico come scrive. Hai ragione, dico, piace pure a me, però quando mi viene di scrivere una canzone la scriverei come la scrive lui, per questo fatico ad ascoltarlo, perché non lo ammiro perché secondo me io non scrivo bene canzoni. Non sono brava con la metrica, con le melodie, sono monotona e triste e rosicona e tante altre cose brutte, diciamo.

Senza contare che io ci metto una vita ad affezionarmi alla musica che sento per la prima volta, per mandare giù un album lo devo sentire tipo cinque volte, soprattutto se mi piace davvero. È questione di abitudine ai suoni nuovi, o ai suoni in qualche modo così tuoi che ti spiazza sentirli da un’altra persona, da un’altra chitarra, da un’altra voce. Poi quando scrivi cominci ad assomigliare un po’ a tutti e ti butti giù, non scrivi più, non suoni più, finché sono mesi che non senti musica nuova e allora ti viene da creare tu qualcosa.

È vanità, è egocentrismo. È un po’ anche fare la vittima – non c’è niente di fatto così, allora lo faccio io perché secondo me serve, invece non serve a nessuno, lo stai facendo solo per autoconvinzione, autoconvincimento, non so come si dica in realtà. Insomma lo stai facendo solo per te e solo con te rimarrà.

Stamattina mi sono alzata alle 9 ed ero inquieta. È la prima domenica in cui mi riposo dopo troppe domeniche sui libri e troppi giorni uguali.

Allora sento musica nuova, perché ho tempo per farmi scombussolare e per crogiolarmi nel pensiero “io ci ho pensato prima di lui a scrivere questa cosa così”. In realtà è così, ci ho pensato prima ma non l’ho fatto, semplicemente, e quindi mi maledico per non averlo fatto tutta la mattina.

Ma quell’album mi conquista comunque, e forse come ha conquistato me, in questo modo così triste/depresso/vittimista avrà conquistato qualcun altro.

L’indie romano è radical chic. Posso essere d’accordo. Ma non lo è sempre stato. Però è vero che adesso ha suoni definiti e commerciali, è uscito dalla cameretta con vista Casilina e lo passano su Radio 2.

In ogni caso finché ci saremo noi che ci facciamo conquistare così da queste canzoni scritte così e questa musica semplice, c’è forse una speranza che un giorno tutto sarà migliore, forse come mio cugino di sette anni che canta vorrei ma non posto i miei figli canteranno l’ultimo di calcutta. Chi può dirlo.

Mi prendo comunque tutto il tempo che ho per ascoltare questa musica. Che per me non passerà mai di moda. Questa roba che sembra che sia lei ad ascoltarti, non tu ad ascoltarla, non passa mai di moda.

 

Fammi fare ciò che devo

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Un anno strano, penso che il duemilasedici sia questo. Noi lo abbiamo vissuto tutti in modo diverso dagli anni precedenti.

 

È un bilancio di metà anno, ed è soggettivo, perché per me metà anno è un periodo strano. Tanto più quest’anno che non ho soldi per andare a un bel concerto. O forse perché un concerto che mi piace non c’è qui quest’anno. O forse perché mi sono appassionata ad alcuni artisti solo dopo aver sentito i loro live in quelle poche radio che ancora passano i live di chi inizia a scrivere musica e parole adesso. Adesso.

In questo momento di vuoto riempito di illusioni tecnologiche e di esplosioni di proiettili che fanno notizia solo adesso. In questo momento di psicosi. In questo momento di emergenze. In questo momento qualcuno scrive e canta e suona canzoni e cerca la bellezza.

Vado a ballare tre volte l’anno perché non mi piacciono le persone che stanno nelle discoteche, non mi piace come mi si avvicinano, non mi piace guardarle avvicinarsi. Non mi piacciono le canzoni dell’estate, sono per i ragazzi ricchi. Io ci vado perché a metà anno ho bisogno di stordirmi, e se non ci riesco torno a casa insoddisfatta e il giorno dopo sono annoiata e sento come se mi mancasse qualcosa.

Io poi neanche so ballare. Ho solo bisogno di qualcosa che sovrasti di volume le innumerevoli parole che escono dalla bocca di tutte le persone che mi stanno intorno, e ho bisogno che succeda in un buio relativo perché so leggere bene il labiale e i miei occhi lo fanno pure contro la mia volontà. E ho bisogno che il volume sia alto e che ci siano tante casse perché ho un buon udito ed involontariamente sento anche quello che non voglio sentire.

Non c’è un motivo preciso dietro questo bisogno. Questo lo rende un bisogno ancor più incontrollabile degli altri. Bevo tanto, faccio pipì; ho caldo, mi svesto; ho fame, mangio. Ma non so perché ho bisogno di non udire più voci umane, solo suono, poche parole, poco naturali, un terremoto controllato di bassi che muovono le tavole di compensato nero che mi separano dalla terraferma.

– E ti prego, chiunque tu sia, fa’ che in questo preciso momento non ci ammazzino tutti in un attentato, ti prego. In questo anno duemilasedici, aspetta un attimo, fammi fare ciò che devo. Fammi ascoltare ancora un po’.

 

 

Quella frase scritta su una colonnina di SOS al terminal dei Cotral, la vedo sempre, e quando la leggo me la rileggo in testa, me la ripeto. “Fino a qui tutto bene”. È “L’odio”, vero? Ma io la leggo per il significato letterale che ha, al di là di come la vedono tutti.

Per me significa quello che significa: sono venuta da lontano, sono arrivata qui e da qui devo arrivare a casa mia, e per ora ci sono ancora, e nelle cuffie ho Battiato ma i bassi sono potenti come in discoteca.

Per poter tornare a casa sana e salva, per dire che va tutto bene, per favore non togliermi mai le cuffie.

 

 

Quanto sei buona

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Vista del ponte 25 de Abril dalla Torre di Belém, Lisbona

Io mi sveglio tutte le mattine con la radiosveglia, quando devo andare all’università presto, la sveglia suona col giornale radio. Da quattro anni a questa parte, per un masochismo a cui non so dare una spiegazione, mi sveglio con una notizia, che spesso è una brutta notizia. Negli ultimi sei mesi mi è capitato di non riuscire ad alzarmi in fretta per degli shock senza precedenti ricevuti dalla prima notizia del giornale radio.

Ieri sera sono andata a dormire tranquilla, verso mezzanotte gli exit-poll davano in testa il remain, ‘sti referendum sono una farsa, ci siamo detti, ti pare che questi mo’ pigliano ed escono dall’Europa, ci sono troppi interessi. Ma sì, andrà bene, usciamo, che ce la guardiamo a fare la maratona di Mentana.

Stamattina ho faticato ad alzarmi.

Quando sono arrivata da lui, aveva la solita espressione mista tra la stanchezza e l’ansia di quando uno studente modello si alza per sbaglio a mezzogiorno e quindi non riesce a fare tutti i suoi compiti.

Mi ha svegliato mio padre, mi fa, mi ha dato un colpetto e mi ha detto “aho, Brexit eh”. Grazie per aver rovinato il mio sonno.

Il pc è acceso, scorre le notizie, ma ti pare, mi fa, che la gente è così stupida, Dio mio, gli stupidi non vanno derisi, vanno odiati.

È preoccupato. Non allarmato, ma preoccupato. Io lui non l’ho mai visto allarmato, forse è per questo che stare insieme ci viene bene, perché non ci siamo visti in tutte le situazioni, e per fortuna, direi.

Si stende vicino a me, a pancia sotto. Quando si stende a pancia sotto ha paura. Abbiamo pochi pensieri, ma ognuno è pesante come dieci. Andarcene, ma dove? In un paese caldo, in un pese freddo? Ma perché quelli dei paesi freddi vivono bene e senza problemi, e quelli dei paesi caldi sempre mille problemi? Perché il caldo ammattisce, forse? Andiamo in Danimarca. Sìsì, a Copenaghen.

Si gira verso di me a occhi chiusi, odio il mondo, mi fa. Anche io spesso lo odio. I più grandi ci hanno chiuso quasi tutte le exits possibili. Impariamo il francese, che è l’unica cosa che ci rimane di fare. Come si dice “odio il mondo” in francese? Diciamolo nella lingua che ci rimane di poter parlare.

Fa caldissimo, sono le due del pomeriggio e il sole batte e il caldo sale dall’asfalto. Passiamo vicino ai prati del centro commerciale, faccio per parcheggiare.

Guardiamo i prati, l’acqua dell’irrigazione vola alta e innaffia tutto. Poi ci guardiamo noi. Come si vive accanto a qualcun altro se non riesci a sopportare quello che ti sta intorno? Guardi chi ti sta accanto. Ci ammiriamo, noi, e vorremmo il mondo fatto come ciò che ammiriamo.

(Ricordo quando sono scoppiata a piangere perché mi avevano fatto uno scherzo e mi ero preoccupata, dimentico sempre quanto sei buona, mi disse, anche se ridendo.)

Ci guardiamo di nuovo.

Lo facciamo? mi fa

Certo. Perché per andare avanti, lo dobbiamo fare.

La signora Giovanna va a quaranta all’ora su via Scintu, lenta lenta perché l’aria condizionata consuma tanta benzina. Svolta su via Lamaro per parcheggiarsi all’Inps.

Un ragazzo e una ragazza zuppi dalla testa ai piedi corrono e si abbracciano sotto l’acqua dell’irrigazione–

 

Orizzonti

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Banchina direzione Lodi, Metro C, Torre Gaia

 

Qualche giorno fa ero a San Giovanni, era già sera.

Roma per me è strana perché da dentro non si vede l’orizzonte, io invece ci sono abituata, se guardo verso la città o verso l’aeroporto, io l’orizzonte lo vedo anche dalla strada all’ora di punta. In questi giorni, già alle sei di mattina si alza la nuvola di smog rosastra che sovrasta tutto: dalla grande antenna sulla Laurentina, ai palazzi poco dentro Osteria del Curato, alla Cupola di San Paolo, a San Pietro, al palazzo della vecchia Fatme, a Don Bosco. La strada in discesa scende in mezzo a una nebbia artificiale di cui puoi accorgerti soltanto se ne esci.

Quando hanno aperto la Metro C mi sono accorta che c’è una città fuori dalla città, che vive e si incontra e si collega come io non riesco a fare neanche con le persone che mi abitano di fronte.

Sulle banchine della Metro C non c’è la linea gialla, ma i binari sono protetti da alte vetrate che ti impediscono di buttarti sotto al treno. Nessuno guida la Metro C, va da sola.

Quant’è diversa questa parte di città! Nelle periferie più buie di Roma, lungo la Casilina, ecco stagliarsi un capolavoro dell’innovazione tecnologica, operativo dalle cinque di mattina alle ventitrè e trenta, che non ha bisogno di linee gialle né di conducenti. E’ un piccolo premio che ti danno per aver attraversato la Casilina senza strisce pedonali.

“Oh Matti’, guarda là”

“Dove?”

“Vicino quel palazzo alto, accanto, lo vedi? Cos’è?”

E’ una gru. Altissima, più dei palazzi con gli attici dei politici comprati a loro insaputa, una gru che assomiglia a un mostro de “La guerra dei mondi”, quello con Tom Cruise però.

Da San Giovanni, da Colosseo, se alzi gli occhi vedi le gru che costruiscono la Metro C, ferme, a qualsiasi ora del giorno. Come se dicessero “No, non voglio collegare Pantano a Colosseo. Dentro il GRA siamo già troppi”. Fanno paura di notte, da lontano, ti mettono in soggezione tanto che vorresti ripararti dietro alle colonne del Foro e abbracciarne una per sentire ciò che è rimasto di una grandezza a noi sconosciuta, perché la nostra città è gialla come i colori dei cantieri che non finiscono mai, e grigia come la polvere che alzano sempre più senza motivo.

Tira un po’ d’aria perché si stanno avvicinando le nuvole del temporale, le foglie del vecchio catalpa si muovono, dolci.

“Ti è passata la malinconia?”

“Sì, sto bene”

“Allora non sei ancora andata a votare”, faccio una smorfia, effettivamente no, non ci sono ancora andata e neanche me n’ero ricordata.

“Io ci ho portato tutte le mie amiche. Però Assunta non ce la volevo portare perché votava la Raggi”

“Nonna, ma dai. E te chi hai votato?”

Ride. Si poggia sul davanzale della finestra, e guarda il nostro orizzonte.

 

7 anni

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La nuova antenna telefonica a Casaline di Preturo (AQ) 

 

Il fuoco strepita ancora, il calore non si esaurisce mai. Il legno umido ogni tanto scricchiola.

Casa è vecchia ma è comunque di cemento, costruita sopra una strada che è comunque d’asfalto. L’asfalto l’ha fatto il mio bisnonno quasi cent’anni fa, e casa mia era ancora una stalla, e si faceva pipì nella paglia degli animali.

Siamo troppi al tavolo rotondo, allora io e la bambina siamo al tavolo piccolo, accanto alla finestra. Mangiamo, ma solo una porzione di tutto. Lei non ha tanto appetito, mi parla dei disegni che fa.

Mi dice che va a una scuola prestigiosa, che parlano inglese e che dipingono quadri, che a giugno faranno una mostra. La mamma le parla un misto di italiano, francese e inglese, e lo fa come se io non capissi ciò che dice. La bambina non è viziata, anche se è come nobile, è come altissima pure se mi arriva alla pancia.

Parliamo un po’, sorride, poi non mi guarda più, ogni cosa attira la sua attenzione. I suoi occhi si posano su una cosa alla volta, come se i dettagli da ammirare in quel luogo fossero disposti in una precisa lista, e bisogna rispettarla, quella lista. Io le parlo ma fondamentalmente per lei sono un disturbo.

Io conosco un segreto, mi dice. Però è fuori da casa, è dove iniziano i prati, li conosci?

Li conosco, le rispondo, li conosco tutti perché quando ero piccola come lei non sapevo fare quasi nulla e allora camminavo. Pure quando c’era tanto sole e nessuna nuvola. Pure quando c’era il temporale a inizio agosto e le signore si preoccupavano per la processione il giorno della festa. Però queste cose non gliele dico perché preferisco non mi chieda di più.

Andiamo, ti faccio vedere, mi prende la mano e mi tira fuori dalla porta. Corre sulla discesa verso la strada di asfalto, noi la chiamiamo la strada nuova. Metto i piedi uno davanti all’altro in modo scomposto perché la discesa è ripida, e i sampietrini rosa sono sconnessi.

“Quanti anni hai?”

“Sette”

“Allora sei nata nel duemilanove”

“Sì. E tu quanti anni avevi nel duemilanove?”

“Quindici”

“E venivi qui?”

“Spesso”

“E perché non vieni più?”

“Perché la mia casa non c’è più”

È che non ricordo bene il perché. Dopo il duemilanove ho un vuoto. Dove andavo d’estate? Cosa pensavo? E dov’ero mentre costruivano le case intorno alla città? Perché mi sono fermata? Perché sono cambiata così tanto dopo quello che è successo?

In fondo io sono di Roma. Io ho la mia casa, è in piedi, è bella, ha un giardino. Ho la mia famiglia. Però io ho lasciato qualcosa tra le macerie. Cosa?

La bimba mi porta alla fine dello sterrato, dove cominciano le proprietà.

“Ecco”, mi fa.

Poco fuori dal bosco di castagni, eccola.

La bambina raccoglie le viole e torna a casa.

Tra le macerie ho sepolto un certo tipo di speranza.

 

La pianta grassa

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Via Tuscolana, altezza via Roccella Jonica, direzione Frascati

 

Fuori dalla finestra del rettorato il cielo è di un grigio-rosa, come tutti i maggi degli ultimi anni alle 11 di mattina. Il parquet è rovinato ma fa chic, i mobili non c’entrano niente col colore del parquet, dietro di me ci sono cinque volumi sulla storia dell’Università di Pisa (perché). Accanto a me il professore molto grasso tossisce.

“Ha l’influenza, professore?”

“Sì, l’ho presa in Albania. Alla Cattolica in Albania non accendono i riscaldamenti”

Penso alla Asl di via Cartagine. Vado a fare una lastra, è presto, sono la prima. Entro da sola dalla porta ermetica che il tecnico mi apre dal gabbiotto.
Il linoleum per terra è azzurrino, lo zoccoletto è di legno rovinato, i muri sono gialli – non perché rovinati, per scelta di stile.
Vado giù giù in fondo fino alla sala di radiologia, quella con il cartello giallo di pericolo radioattivo.
Oltre alle stanze di ospedale, ne ho viste altre due con quel cartello appeso, nel piano interrato del palazzo di giurisprudenza. In entrambi i casi le porte sono di legno e con la serratura a chiavistello.
Il tecnico mi posiziona la testa per far sì che la lastra venga bene.

“Le bastano diecimila euro per partire?”
Il professore non mi sta comunque guardando.
Vorrei rispondere qualcosa di sensato. Da dove vengono? Come me li date? Cosa devo firmare?
“E poi, come funziona?”
Ho risposto con una domanda a un’offerta del genere. Ma che mi frega di come funziona. Ma certo che mi bastano.
Il professore mi dà una pacca sulla spalla. Io ho comunque paura.

“Tira giù ‘sta spalla, però alza il mento” è impossibile, vorrei dirgli. Fammi sta foto così come sono, è inutile che cerchi di mettermi giù le spalle perché ho i nervi troppo tirati. Ma poi devo vedere se ho la sinusite, che c’entra la spalla.
Però mi sforzo.
Non ho ancora firmato niente. Chissà se i raggi x vedono anche la vaghezza dei miei pensieri.

Esco dalla sala conferenze. Su al rettorato, come nelle stanze delle lastre, le piante grasse crescono bene.
Il professore mi ha guardata bene solo alla fine, e molto intensamente.
Forse è dalla stanza radioattiva del seminterrato, che escono questi individui che ti guardano poco spesso ma sanno comunque capirti.
Forse lui mi ha visto la testa meglio di un rx.

Alla fermata di Roccella Jonica fa freddo, pure se è 17 maggio, piove. Aspetto l’auto da mezz’ora, non si capisce bene se è mattina o pomeriggio, ma aspetto. Prima o poi arriverà il sole o la notte.

“Ci vuole una canoamotore”

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Terminal partenze Cotral, stazione Metro Anagnina

 

Fino a due anni fa, più o meno, non sapevo cosa fosse un argano, e per me Daniele Silvestri in Salirò diceva che voleva una “canoa a motore”, da me personalmente abbreviato in “canoamotore”. Ecco, da questa situazione forse mi rialzerei solo con una di quelle. Una canoamotore.

 

“Quindi, secondo lei, io che devo fare?”

“Te devi da’, vai all’estero, impara a parla’ inglese, che ai tempi miei era un inpiù, adesso è scontato”

Parole di una delle più grandi figure del diritto italiano. Parole del mio relatore. E puff, invece di avere le idee confuse, ora semplicemente non vedo più nulla.

“Lo vedi, mio figlio” apre canale Instagram del figlio “sta a New York. È tornato a casa tre giorni quest’anno per la prima volta dopo… sai quanto?… due anni e mezzo. Cioè lui per due anni e mezzo non ha sentito il bisogno di tornare a casa” scorre foto sul canale Instagram. Luissino, public relations, apericene a Manhattan. Io guardo oltre la finestra e c’è il Raccordo che sbuffa.

Ho uno strano rapporto con l’andarmene in generale, pure per qualche giorno. Vado, vado, ma poi devo tornare a Roma Sud; e per me è spaventoso, significa che sono una specie di provincialotta che sta comoda e sicura aspettando l’Atac sulla statale. Gli esami sono quasi finiti, ma è come se stessi ancora dieci esami indietro. Ogni volta che penso a quanto sono contenta, mi sale dentro un’onda di nostalgia di quando pensavo ancora di poter rimanere qui.

“Se devi andare, e devi andare, che sia a Nord di Roma”

“Ma Teramo è a Nord di Roma” – mostro la cartina dell’Italia al mio amico, che è uno che a Nord di Roma ci va davvero, non come me che dire Nord di Roma è dire Roma Nord – “guarda, mica c’è bisogno di andare a Milano per andare a Nord di Roma. Vada per l’Università di Teramo”.

Mi rivedo in quella scena e capisco definitivamente che la provincialotta è ormai una realtà, porca miseria, sto qui a difendere l’Abruzzo, che poi in fondo andare in Abruzzo è quello che volevo da sempre, ma qua pare che se non cambi quello che vuoi non sei abbastanza fico.

Il problema è sempre stato l’eccessivo senso di appartenenza. Sono cresciuta con amici di Morena Sud, che distinguono tuttora Morena Sud dall’Altra Morena, che mi hanno mostrato le particolarità del territorio dove a mala pena sapevo di vivere, che mi hanno fatta incatenare per amore e per odio al mio quartiere, se così si può chiamare quest’ammasso informe di residenze più o meno lussuose e di case più o meno rifinite, di strade senza marciapiede e di 551. Vivo che se vado a Corso Francia, le persone ai miei occhi hanno una faccia e delle mani diverse. E io mi chiudo, un po’ per orgoglio e un po’ per vergogna, nella mia condizione esistenziale di abitante della statale.

Per me già fare un dottorato in Sapienza è come trasferirmi. Alla LUISS è come prendere un aereo per Londra. Mi accorgo che ho decisamente troppi confini, e che se li difendo o se vado oltre, non sarà mai in ogni caso la scelta giusta. Qua pare che se dici che vuoi rimanere in Italia perché c’è da fare l’Italia sei un radical chic demmerda, se te ne vuoi andare perché si sta meglio in Germania sei un radical chic demmerda, insomma sempre quello sei, l’importante è essere di larghe vedute e sapere l’inglese.

Ripenso al figlio del mio relatore e mi accorgo che fa le apericene a New York.

Apro Google Translate. Digito “apericena”.

Un post tipo

Tipo l’altro giorno ero sull’autobus, anzi dovrei dire sul furgoncino, che porta a casa mia. Qua fuori dal raccordo praticamente c’è un’altra Roma, con le sue -mila persone che sono sempre più -mila, ma gli autobus sono sempre più piccoli e alti, in controtendenza, diciamo. E dunque pensavo che questa cosa del furgoncino la odio, è così piccolo da non poter non sentire o vedere praticamente ogni cosa che fanno le persone che ti stanno vicino.

Da Anagnina a casa mia ci vogliono 15 minuti, e in quei 15 minuti sicuramente una ragazza tra i 15 e i 20 anni mi sta seduta vicino. In tempo record riceve una chiamata sul cellulare, risponde “Amo’”, e inizia una conversazione poco raccontabile con il suo fidanzato, ad altissima voce. E parlano, parlano, parlano dei loro problemi di qualsiasi tipo, e io prego l’Altissimo di sopravvivere a un cappottamento della vettura, perché l’autista sta piottando come se non ci fosse un domani.

Allora mi dico “Se si cappotta verso sinistra, devo reggermi a un appiglio a destra, e viceversa”. Il principio per sopravvivere a un ribaltamento, nella mia testa, è che devo appendermi alla cosa che rimane nel punto più alto possibile, così da cadere praticamente in piedi. Ripeto, nella mia testa è così.

Ogni tot c’è la mamma col bambino. Un bambino che invece di starsene sul suo passeggino/papamobile (pagherei oro per farmi scarrozzare sul passeggino) decide di fare l’acrobata mentre l’autista fa l’inversione di marcia sul ponte a 70 chilometri orari, cade, piange, si rialza e poi mette i gomiti sul finestrino e guarda fuori e dice: “Guarda mamma, quante pecore!”

Quante pecore, sì, una cifra di pecore. Quando faccio quel tratto di strada di notte e fa caldo, loro sono tutte spaparanzate sul prato, e se l’illuminazione stradale è spenta, loro sembrano un’enorme nuvola bianca in mezzo al buio.

Mi pare come di stare anni indietro rispetto al mondo. Quando esci fuori dal raccordo passi dal 2015 al 1960 in un secondo, la gente normale lo fa solo per andare a Ikea col fidanzato o col marito.

I segnali stradali cominciano a nominare posti come “Grottaferrata”, che tu, che vivi a Giulio Agricola, hai pensato sempre che fosse montagna, Grottaferrata. Hai pensato che tra la Metro Anagnina e Grottaferrata ci fosse una zona di materia molliccia informe, e da qualche parte c’è un aeroporto anche, e da un’altra parte l’Università, ma è uno di quei posti in cui sei passato tante volte nell’automobile dei tuoi genitori, protetto da strati di cinture di sicurezza, e che se ci ripassi adesso non te lo ricordi, e che se ci ripassi domani non te lo ricordi ancora, perché non ha forma, cambia sempre e resta sempre monotono.

Perché le automobili sul GRA passano troppo veloci e troppo pensando a loro stesse. Le cose belle si vedono dalla corsia interna, non da quella esterna. E hanno ragione.

Però una cosa bella la vedo pure io. D’estate, all’alba, io da qui vedo le cupole. San Paolo, Don Bosco, San Pietro. E tutti più o meno dormono, e non passa nessuno sulla statale, che ti puoi mettere seduto sull’asfalto e guardare.